Open menu

 


Carrello


Libro della Settimana

Classifica Libri

I più venduti del mese

Best-seller 2022

I nostri long seller

18 Settembre 2024

FISCHIO D’INIZIO/2

Settembre è un “capodanno mentale”, mese di buoni propositi e nuovi inizi. Scolastici, lavorativi, e anche sportivi. I nostri autori per questo numero di Spartaco Magazine hanno preso il via dal loro personale concetto di fischio d’inizio, intrecciando la ripartenza settembrina con tutti gli “start” che la vita ci mette davanti, anche quando sembra aver pronunciato la parola “fine”.
Ma settembre è anche malinconia, per chi è rimasto fuori dal giro. Come Enzo che, nel racconto di Flaminia Festuccia, guarda il mondo che riparte mentre lui si sente un orologio inceppato, nella sua quotidianità senza sbocchi che finisce sempre AL BAR DA FRANCO.

Flaminia Festuccia, autrice di “La stagione dei papaveri

AL BAR DA FRANCO

Settembre è il mese più crudele, sottrae luce e accorcia i giorni, riempie l’aria di temperature più miti e le città di gente di ritorno dalle ferie. Settembre fa promesse che non sa mantenere, e l’inquietudine che ti mette addosso profuma di carta nuova, penne, progetti da realizzare. Se lo sente nelle ossa, Enzo, quel fremito, anche se non lo sa nominare. Se Clelia fosse ancora viva, glielo direbbe con le parole sue, di quel friccicore nell’aria della mattina che da un giorno all’altro non è più opprimente di afa ma gli increspa la pelle delle braccia smagrite in un brivido piacevole. Un brivido che dura un attimo, spento dalla realtà che incalza.

Si allaccia la camicia a quadri, maniche corte, uguale a dieci altre che già ha, che sono facili da lavare e il tessuto misto sintetico non va stirato – era Clelia che stirava e lui da solo non ne è capace, e la pensione è magra, mica ci sono i soldi per portarle in lavanderia, figuriamoci per pagare una domestica. Sono tre anni che Clelia se n’è andata e lui si è arrangiato come può, si lava le sue cose, si cucina, fa la spesa, passa lo straccio quando vede sporco. Certo, non spolvera più i soprammobili, che poi li ha pure tolti. Gli mettevano tristezza, tutte quelle minutaglie da poco prezzo scelte dalla moglie e spolverate per decenni con un amore e una tenerezza che gli scava un buco dentro ricordare. Anche questa cosa non l’ha detta, né l’ha capita fino in fondo. Si è limitato un giorno a pensare che tutta ‘sta caciara di oggettini lì sulle mensole non gli piaceva e via, in una vecchia scatola da scarpe e dentro l’armadio, quello di Clelia, dove c’è rimasto poco di lei e mano a mano si accumulano oggetti, polvere e ricordi.

Ora l’appartamento è più essenziale, più vuoto, più facile. Al posto della poltrona di Clelia, ad esempio, ci sta la cuccia di Ginger. Clelia un cane in casa non l’aveva mai voluto.

Questa mattina di settembre, più fresca dopo la pioggia notturna, Enzo aggancia il guinzaglio alla grossa cagna fulva e si appresta come sempre al suo giro mattutino.

«’Namo bionda» le dice con tono affettuoso, strattonandola piano per farla salire in ascensore. 

La cagna lo segue lenta e solenne. 

Alla Muratella c’era uno sfacelo di cuccioli bastardi che guaivano e saltavano e sembravano dirgli «Portami via, portami a vivere», ma lui ci si era incaponito su questa cagna qua.

«Signorì» aveva detto alla volontaria che gli faceva vedere canetti con le voci acute cercando di convincerlo che un cane di taglia piccola era perfetto per un anziano in appartamento «Signorì ma me ce vede a me con uno di sti pupazzi qui? Me faccia vedè quelli grossi»

Ginger, l’avevano chiamata lì al canile, detta gingerona perché nonostante le crocchette scarse era tonda come un barile. «Ahò, parevi uno scaldabagno quando t’ho presa» le dice ogni tanto, carezzandole i fianchi che con le passeggiate quotidiane in giro per il quartiere si sono smagriti fino a ridarle una specie di silhouette.

Era stata una bella lupa, da giovane, ma la vita per strada e le troppe gravidanze l’avevano segnata, dandole un’andatura rigida e strani timori – verso i bambini, gli autobus e le donne bionde. Lei e Enzo si erano fissati in silenzio tra le maglie della rete metallica del box di cemento. Poi Ginger aveva piegato di lato la testa come fanno i cani quando ascoltano voci lontane che gli umani non possono sentire. A Enzo gli si era smosso qualcosa.

«Prendo questa, signorì» aveva detto alla volontaria «che è vecchietta come me e ci facciamo compagnia, che semo soli tutt’e due».

Non aveva mai capito perché la ragazza fosse scoppiata in lacrime, a quel punto, ma si era frugato le tasche cercando un fazzoletto che non aveva. Poi aveva firmato le carte che doveva e si era portato a casa la cagna, che lo aveva seguito docile.

Da quel giorno Ginger lo accompagna in tutti i suoi giri, che poi non sono molti. A fare la spesa, ogni tanto alla posta, e poi, certo, al bar tutte le mattine.

«Anvedi chi si rivede» gli fa Franco, che sciacqua bicchieri dietro al bancone, come se fosse una sorpresa vederlo lì.

«Ciao Enzì, che te preparo?» gli fa eco Ivana, che serve ai tavoli, come se per una volta potesse decidere di cambiare il suo solito ordine.

Gli altri pure son già tutti lì, schiera di pensionati coriacei e abitudinari, rochi di troppe sigarette e polvere di cantieri, tutti intenti a parlarsi sopra, a fare la battuta più greve, a commentare a voce più alta. È un rumore familiare e buono che tiene lontani i pensieri.

«Ahò finalmente se respira» dice Roberto, che come Enzo non ha mancato un solo giorno di quell’estate rovente lì al bar, l’unico della zona che non chiude nemmeno a Ferragosto. «Eh che dici, Enzì?»

Enzo alza le spalle e non risponde, ma si lascia avvolgere dall’atmosfera del bar.

Da quando Clelia non c’è più la vita ha assunto una strana forma circolare, ripetitiva. Un orologio vecchio che si inceppa quando deve finire il giro, e invece di far scattare avanti la casellina di un giorno ripete quello già vissuto. Sembra che nulla più possa scandire il tempo, quasi che loro, lì, siano vittima di un incantesimo dolce e malefico, che li blocca nel castello stregato del bar di Franco a far passare ore tutte uguali mentre fuori il mondo va avanti, cambia le stagioni, si ferma e riparte con ritmi suoi di cui loro non fanno più parte.

«…e manco più er campionato…»

La voce di Roberto lo riporta al presente di tavolini appiccicosi e tv di sottofondo. Gli hanno chiesto un parere su qualcosa che non ha sentito, distratto da quel vago dolore senza nome che lo coglie a vedere gli uffici che si riempiono, i negozi che riaprono, le scuole che stanno per ricominciare.

«Eh, Enzì, sempre prima cominciano questi. Almeno prima c’avevi ‘na cosa, nun so…il tempo de sentì la mancanza, no? Mo questi manco te fanno passà ferragosto che ricominciano»

Ecco cosa lo agita, a Roberto, ecco la polemica del giorno: l’inizio del campionato che ogni anno arriva sempre prima, sempre anticipato.

«Che poi manca una regola, questi giocano de mercoledì, de venerdì, de sabbato…»

«E c’hai raggione Robbè» gli dice Enzo, mentre quello sempre più accalorato batte la mano di piatto sulla pagina sportiva del giornale. 

A lui in realtà non dispiace questa cosa, gli dà una scusa per riempire le giornate, sedersi qui da Franco con una birra fredda davanti allo schermo un po’ sporco appeso in alto a guardare la partita. Una qualsiasi, per non stare da solo, con Ginger sdraiata per terra che ogni tanto scalcia qualcosa mentre sogna il suo passato misterioso. 

Fuori lo strombazzare furioso di un clacson, un’imprecazione. I rumori della strada invadono la quiete ovattata del bar.

«Certo che so’ tornati tutti» commenta Mario «’Na caciara oggi pe’ strada, mica il solito mortorio».

Già, se n’è accorto Enzo che settembre è arrivato, e non solo per la rinfrescata notturna. 

I bambini, bambini ovunque. Abbronzati dalle vacanze al mare, in montagna, in campagna, rumorosi, allegri. Vivi. Sono rispuntati all’improvviso popolando i marciapiedi per mano a mamme stanche che li minacciano di punizioni orribili se non si decidono a camminare piano e a fermarsi prima di attraversare la strada.

Lui e Clelia, di figli, non ne hanno avuti. «Se bastamo noi, vero Enzì?» gli ripeteva lei, fino al punto che lui ci ha pure creduto. Negli anni intanto gli si è scavato dentro un buco con un contorno preciso. Un pupo, un pupo tutto suo, da far saltare sulle ginocchia, da accompagnare a scuola, da portare allo stadio, da insegnarli ad andare in bici, da dargli qualcosa in più di quello che ha avuto lui da suo padre. Lasciare una cosa bella su questa terra poco gentile. E a quest’ora di settembre magari avrebbe avuto una nipotina con le trecce che iniziava la prima elementare, rinunciare al caffè al bar la mattina, al goccetto il pomeriggio, per comprarle quelle bustine colorate dal giornalaio o portarla alle giostre la domenica.

Paga il caffè frugandosi nelle tasche alla ricerca di spiccioli, gli è venuta noia all’improvviso di starsene qui dentro, gli è venuta una smania di fare qualcosa di diverso. Se cammina un po’, lui e Ginger possono andarsene al parchetto, sedersi su una panchina, guardare un po’ di verde invece di queste solite quattro mura, di queste solite quattro facce. 

Quando esce, però, si sente mancare le forze. Un filo invisibile lo tira di nuovo verso casa. Si avvia lento sotto il sole che si è fatto di botto rovente come se ancora volesse richiamare l’estate. Intorno, il quartiere si rianima nel primo lunedì di settembre, vive e respira dopo la pausa di agosto. Enzo cammina, estraneo a quel fermento. Da un lato e dall’altro della strada, tre negozi alzano le saracinesche all’unisono, come al segnale di un fischio d’inizio che lui, ormai, non riesce più a sentire.

Etichette: edizioni spartaco, Fischio d'inizio, Flaminia Festuccia, la stagione dei papaveri, racconti, settembre, Spartaco Magazine