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Settembre è un “capodanno mentale”, mese di buoni propositi e nuovi inizi. Scolastici, lavorativi, e anche sportivi. I nostri autori per questo numero di Spartaco Magazine hanno preso il via dal loro personale concetto di fischio d’inizio, intrecciando la ripartenza settembrina con tutti gli “start” che la vita ci mette davanti, anche quando sembra aver pronunciato la parola “fine”.
Piero Malagoli ci racconta di un giornalista che assiste al declino della sua carriera, e che nell’improbabile incontro con una VECCHIA GLORIA del calcio troverà un inaspettato sprone per non continuare a giocare partite perse.
Piero Malagoli, autore di “Nel rimorso che proveremo“
VECCHIA GLORIA
Stavo attraversando un brutto periodo. Insoddisfatto di me stesso e del lavoro avvertivo le forze abbandonarmi rotolando dalla china che aveva inghiottito il mio entusiasmo e ogni fiducia verso il futuro. Da giornalista impegnato in ogni sorta di inchiesta e reportage ero finito a trattare cronaca di dubbio gusto, accodandomi alla schiera di colleghi che ripercorrevano piste fredde di omicidi insoluti e rovistavano nel torbido dellevecchie storie di scomparsi.
Avevo ancora una redazione in cui rifugiarmi e un tesserino grazie al quale riconoscermi in una categoria a cui faticavo a dar credito.
Quando il direttore mi passò l’incarico per quel servizio pensai di avere toccato il fondo. Io che per mezzo mondo avevo intervistato premier politici e feroci dittatori, iconici intellettuali e premi Nobel, industriali onnipotenti e attori dal cachet milionario (ma solo se ritenevo avessero qualcosa da dire) mi trovavo a incontrare una vecchia gloria del calcio nostrano, un ultrasettantenne dal nome ormai caduto nell’oblio, per un articolo di contorno al turno di coppa. Siccome il mio appartamento in centro reclamava un affitto da usura non mi permisi di rifiutare e, ingoiato il rospo, mi apprestai a quel colloquio che, vista la mia indifferenza per il calcio, non rivestiva il minimo interesse.
Nell’immediata periferia di Milano raggiunsi il condominio signorile, ma decaduto, con l’ampio atrio in marmo divenuto opaco, l’ascensore con le porte a soffietto e le piante finte sui pianerottoli. L’anziano mi aspettava sull’uscio del quinto piano, un ampio appartamento che ai tempi in cui militava in serie A doveva apparire lussuoso.
«Si accomodi» mi invitò pacato. Era massiccio, un po’ sovrappeso, con una stretta di mano che non tradiva tremori.
Su due poltrone separate da un tavolino cominciammo l’intervista sorseggiando i drink che una governante ci aveva servito su un vassoio d’argento che aveva visto giorni migliori.
Bollicine per me e una cedrata per l’ex calciatore, il cui nome dovevo sbirciare ogni tanto sul taccuino per richiamarlo alla mente. Parlammo di com’era Milano ai bei tempi, così remotiche nemmeno nei miei ricordi d’infanzia riuscivo a rievocare.
«Era un’altra epoca…» diceva bevendo a piccoli sorsi «Un calcio diverso. Meno soldi in ballo, una rivalità più umana».
Non che mi fossi aspettato nulla di diverso, ma qualcosa su cui lavorare dovevo pur portare in redazione, quindi presi a scorrere l’elenco delle domande che avevo preparato. Tra tante banalità ne scelsi una a caso.
«Quale ritiene sia stato il momento più importante della sua lunga e luminosa carriera?».
Ci pensò su, non capivo se per via delle tante soddisfazioni raccolte o a causa della labilità dei suoi ricordi. Quando rispose iniziò titubante, timoroso di divagare.
«Le dirò… Sono un po’ imbarazzato nel rispondere. Lei si aspetterà che io citi l’esultanza per un goal, l’alzata al cielo di una coppa o l’orgoglio di un nuovo scudetto cucito sulla maglia».
Mi soppesò ancora qualche secondo prima di continuare.
«Voglio raccontarle una storia». Disse infine, vuotando ancora un po’ di cedrata nel bicchiere dalla foggia antiquata.
«Verso la metà degli anni ’60 la mia carriera era ancora al culmine, ma, ormai trentenne, sentivo che presto avrei imboccato il viale del tramonto. Non so dire quanto questo mi spaventasse, ma una strana inquietudine si era insinuata nella mia vita. Ero diventato taciturno, continuamente rabbuiato, nulla aveva più il sapore schietto della vita che ti scorre nelle vene».
Fece una pausa, forse per permettermi di prendere appunti, cosa che d’abitudine non facevo. Così riprese.
«Avevo vissuto l’incredibile esperienza di passare da sconosciuto a idolo nel volgere di pochi mesi, di sposare una donna bellissima e fare una figlia, trasferendomi dalla casa di ringhiera dei miei genitori in questo appartamento sovradimensionato… Non voglio accampare scuse, ma sono cose che destabilizzano l’equilibrio di un ragazzo di quell’età».
Rigirò il bicchiere soppesando il liquido ambrato come fosse whisky in un gesto naturale che giustificò poco dopo.
«Avevo preso brutte abitudini. Per arginare il senso di scontentezza e catastrofe imminente che mi perseguitava cominciai a fare tardi la sera. Dopo gli allenamenti mi rifugiavo in qualche night, intrattenevo relazioni equivoche e presi a bere con sempre meno moderazione».
La conversazione stava prendendo una piega inaspettata, ma lasciai che proseguisse su quella strada. Quell’atleta attempato pareva aver preso l’intervista molto più seriamente del sottoscritto.
«Mia moglie se ne andò di casa e, quel che è peggio, minacciò di portare via Sara, l’unica luce che continuava a brillare nella mia esistenza tormentata. Naturalmente ne risentirono anche le prestazioni in campo, ma non in modo così drastico da farmi perdere il posto».
Si volse di lato, verso la porta finestra che dava sul terrazzo dal quale filtrava la luce lattiginosa di novembre.
«Finché una notte, alla vigilia della finale di coppa, mi ritrovai in piedi su quella balaustra a guardare il marciapiede quindici metri più giù, immaginando un’immensa piscina, in cerca del coraggio per buttarmi di sotto».
Ci fu una lunga pausa durante la quale nessuno dei due alzò gli occhi sull’altro.
«Cielo… questo non l’ho mai raccontato a nessuno e non so proprio perché lo sto dicendo a lei».
Forse perché mi era capitata la stessa cosa non più tardi di un mese prima, davanti alle fauci spalancate dei binari della linea 1 della Metro. Non fiatai e lo lasciai nel dubbio.
«Il giorno dopo, durante l’allenamento di rifinitura, l’allenatore mi prese da parte e mi parlò a muso duro. “Se avessi una valida alternativa non ti manderei in campo. Da mesi non ti stai impegnando e nelle ultime settimane stai disonorando la maglia che porti”. Quando provai ad accampare scuse m’interruppe:“Non mi frega nulla dei tuoi problemi personali, stasera giochiamo per passare alla storia. Se non te la senti vattene adesso ed esci dalla mia vista”».
Scosse la testa sogghignando, come non avesse ancora smaltito l’imbarazzo di cinquant’anni prima.
«Rimasi, naturalmente, anche se non avevo idea di dove trovare le energie per giocare quello storico incontro. E qui, finalmente, arrivo a rispondere alla sua domanda…».
Finita la parentesi di cordoglio parve rianimarsi, come se gli anni gli fossero scivolati di dosso.
«Il momento più importante della mia carriera, e forse della mia vita intera, fu il fischio d’inizio di quella partita. Sarà stato un rigurgito di amor proprio, o semplicemente perché dopo aver toccato il fondo l’unica cosa possibile è tentare la risalita, ma tutta la tensione, le preoccupazioni, la depressione si dissolsero in quel sibilo che riempì lo stadio. Il mio futuro iniziava in quel momento, senza peccati originali, carichi pendenti o rimorsi, durava novanta minuti oltre i quali non c’era avvenire. Nessun dopo, né conseguenze, né prove d’appello. Una vita intera da vivere in quella sera, verso un giudizio universale nel quale sarei stato valutato per ciò che avrei fatto».
Buttò giù la cedrata come fosse uno shot di vodka, io feci altrettanto col prosecco avanzato.
«Fu un’ora e mezza di furore agonistico che spazzò via tutto, un silenzio interiore che mi ritemprò. Alla fine perdemmo quella partita…» m’informò ignorando il cenno di assenso col quale tentavo di millantare competenza sull’argomento «Giocammo piuttosto bene, ce la mettemmo tutta, ma perdemmo ugualmente. Tuttavia la mia vita riprese da quella fatidica sera. Io e mia moglie divorziammo, ma con un accordo amichevole e da allora mia figlia è sempre stata presente. Due anni dopo accettai il trasferimento in una squadra meno blasonata, dove chiusi onorevolmente una carriera piena di soddisfazioni».
Sembrava avermi detto tutto ciò che d’importante c’era da sapere, ma mi sbagliavo.
«Vede…» si sistemò meglio sulla poltrona poi si sporse in avanti «A volte continui a giocare partite perse da così tanto tempo che se non capisci di aver bisogno di un nuovo fischio d’inizio rimarrai un perdente per tutta la vita».
«Posso scriverla questa?» domandai.
Non intendevo nell’articolo, ma tra le massime delle quali fare tesoro.
«Faccia come crede» si limitò a concedere.
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