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2 Aprile 2025

CHE FRETTA C’ERA?/3

“Maledetta” primavera, stagione che ci coglie alla sprovvista con la sua esplosione di vita che invoglia ad aprirsi al mondo. E se un disastro incombe, alla vigilia dell’Equinozio, c’è chi pensa di alleggerirsi la coscienza, scatenando un ARMAGEDDON che da mondiale diventa in fretta personale.

Flaminia Festuccia, autrice di “La stagione dei papaveri

ARMAGEDDON

Il meteorite avrebbe colpito l’Europa esattamente allo scoccare della mezzanotte dell’equinozio di Primavera.

Come nei migliori film catastrofici, i governi del mondo avevano prima minimizzato il pericolo, poi cercato una soluzione, mettendo in campo i migliori ingegneri aerospaziali, esperti di disastri naturali, astronauti e geologi.

Tentativi erano stati fatti: bombardamenti con esplosivi per deviarlo, cariche di dinamite per sgretolarlo, pure lo sgancio di una bomba atomica. Che la vita non è un film se n’erano accorti tutti quando il tempo passava e nessuna delle soluzioni funzionava. L’unico risultato era stato centrare l’orbita del mostro roccioso esattamente sopra l’Italia, che, stando alle proiezioni più accurate, sarebbe stata interamente spazzata via dall’impatto.

Il punto è che gli italiani avevano deciso di non crederci, sulle prime. E quando avevano capito, era troppo tardi per fuggire, le rotte già intasate da più rapidi tedeschi, francesi e spagnoli che si erano attrezzati per tempo.

I barconi carichi di migranti partiti dalle coste di Puglia, Calabria e Sicilia erano stati affondati dalla flotta libica in mezzo al Mediterraneo. Gli aerei decollati verso gli Stati Uniti rimandati indietro. Russia e Cina abbattevano qualsiasi velivolo tentasse l’atterraggio, mentre il Canada preso d’assalto aveva a malincuore dovuto chiudere le frontiere.

Qualcuno era riuscito a scappare, certo. I furbi, i ben introdotti, i prudenti, i paranoici.

Ma non quelli come lui, che per mesi aveva continuato a postare su Facebook i suoi sfoghi contro un governo di pavidi, contro l’imbroglio internazionale, contro le scie chimiche che alludevano a cose assurde come i meteoriti e, già che c’era, contro i vaccini anti Covid che avevano impiantato negli italiani un microchip che li rendeva facile preda del controllo mentale da parte dei poteri forti.

Quando però il 15 di marzo la sagoma del meteorite in avvicinamento aveva iniziato ad oscurare il sole, aveva realizzato che forse c’era qualcosa di vero in tutta quella storia. Gli era venuto in mente, allora, di cercare una via di fuga, ma solo per un attimo. Non era uno che aveva studiato, lui, ma sapeva su che fonti informarsi. Gli ci era voluto poco per capire che la fuga era inutile, e a quel punto una calma titanica, improvvisa, avvolgente gli era calata dentro, partendo dalla punta delle orecchie fino alla punta dei piedi. 

Era felice. 

Felice come può esserlo un monaco buddhista prossimo al nirvana, felice come uno che ha capito che non serve più lottare. Una settimana e poi più nulla avrebbe avuto un senso, non i soldi, non gli affetti, e nemmeno la rabbia che in quegli anni aveva accumulato dentro, rabbia a ogni ingorgo di traffico, a ogni giornata rovinata dal meteo, a ogni multa per divieto di sosta, e tutte quelle volte che qualcuno gli era passato avanti: alla posta, in coda al supermercato, sul posto di lavoro, nella vita.

Libero da quella rabbia, gli sembrava di essere ringiovanito vent’anni in una notte. Aveva voglia di urlare al mondo la sua liberazione, spiegare la bellezza della sua realizzazione: magari restavano pochi giorni da vivere, ma in quei giorni lì, proprio all’affacciarsi di una primavera per niente timida ma anzi, anticipataria e prepotente, si poteva realizzare qualcosa di bello per l’umanità intera. Si poteva vivere l’utopia.

Aveva donato il superfluo e poi si era circondato di tutto quello che amava. Alcol, cibo in quantità, tutto quello che gli era sempre sembrato un lusso eccessivo. Ma non si era fatto prendere dall’ingordigia. Aveva, piuttosto, gustato ogni sorso e ogni boccone. E poi aveva pensato alla sua anima. Non era credente, quindi non vedeva motivo di pentirsi per peccati che in fondo non sentiva di aver commesso. Però si era reso conto, al secondo giorno di consapevolezza della fine, mentre l’ombra dell’asteroide si allargava in cielo un po’ di più ogni ora, che c’era ancora qualcosa che poteva fare per godere in pieno del tempo che restava.

«Lisa, sei tu?» aveva sussurrato al telefono, poi si era fatto più sicuro «Sono Gigi. Lo so che è tanto che non ci sentiamo, ma ti volevo dire che avevi ragione». La sentiva respirare all’altro capo, e se non aveva ancora riattaccato voleva dire che era proprio lei. Se n’era voluto assicurare. «Lisa, non serve che parli ma…». Lei si era schiarita la voce «Ti ascolto» aveva detto solo.

Lui aveva preso coraggio. «Quando dicevi che non era normale che uno all’età mia passasse tre sere a settimana a guardare la tv con sua madre invece che uscire con la sua fidanzata, eh: avevi ragione tu».

«Non ci voleva un genio per riconoscerlo». Era stato il commento asciutto di Lisa.

«Nel senso» Gigi aveva deciso di dire tutto, stavolta «che io non ci andavo mica a trovarla. Mi vedevo con Ilaria. Per sette mesi, tre volte a settimana. Avevo salvato il suo numero sotto “mamma cellulare”, anche. Così quando chiamava tu non potevi sospettare. Mia mamma non ce l’ha mai avuto, un cellulare».

Silenzio, silenzio, silenzio. E poi «Che stronzo».

«E come stai ora, eh? Che…che hai fatto in questi anni?» Le aveva chiesto, come se avesse un senso a una settimana dalla fine del mondo. Lei gli aveva riattaccato in faccia.

Poi era toccato a Ilaria. A cui aveva spiegato che Lisa stava benissimo, in quel periodo in cui loro si vedevano da clandestini tre sere a settimana in un motel a ore vicino alla stazione: nessuna grave depressione e minaccia di suicidio che gli impediva di lasciarla. Ah, e c’era anche il discorso di Michela, di cui né Lisa né Ilaria avevano mai saputo nulla, ben nascosta sotto il più classico degli impegni domenicali, la partita di tennis da cui tornava sempre fresco di doccia, le scarpe sporcate di terra rossa al circolo che era proprio di strada.  

«Gigi, che dici?» Gli aveva risposto Giovanni al primo squillo. Si erano persi in qualche minuto di convenevoli, per non parlare del conto alla rovescia che incombeva sulle teste di tutti loro. Poi Gigi aveva smesso di tergiversare. L’elenco delle telefonate da fare era ancora troppo lungo per perdere tempo. 

«Io lo so che sono passati sei anni, Gio, e che ha poco senso dirtelo adesso che magari te e Michela volete prendervi il tempo per salutarvi prima che…ecco. Però ti ricordi quando tutte le domeniche mattina lei ti diceva che…»

Il resto della frase si era perso dietro al ruggito di Giovanni che gli aveva urlato un’infornata di insulti prima di gridare il nome della moglie e riattaccare di scatto.

Mario invece quella vecchia storia di soldi l’aveva presa un po’ meglio. Si era incazzato pure lui, ovvio. Poi però aveva sospirato, forte. «Non fosse per questo cazzo di asteroide ti ammazzerei domani».

«Ma tanto moriamo tutti fra tre giorni, no? Tanto vale perdonarsi»

A Mario gli era uscita una risata amara. «E che ti devo dire, Gigi. Io mi ci sono indebitato, per te. E tu mi hai detto che ti avevano rubato tutto. Ma adesso che mi frega se quei soldi te li sei giocati…se ti fa stare meglio allora ok, ti perdono pure».

Sentendo i passi sul pianerottolo, Gigi ne aveva approfittato per incrociare il vicino di casa, che non aveva mai sospettato che fosse proprio lui a tagliargli le gomme della macchina quando sconfinava di qualche centimetro dal suo posto auto. E la signora del piano di sopra, che ancora piangeva per il gatto scomparso. Gigi le aveva pure stampato i volantini, si era sentito un po’ in colpa dopo averglitenuto aperto il portone vedendolo correre libero verso l’orizzonte, la sua fuga bruscamente interrotta da un autobus di passaggio. 

E poi, e poi, e poi. Tutte le persone a cui aveva fatto del male. Gli ci era voluta tutta la settimana, per fare quelle telefonate. Almeno una cinquantina di pesi sulla coscienza che si sollevavano.

Fatta l’ultima, alle dieci di sera del 20 di marzo, Gigi era rimasto in silenzio con il telefono in mano, mentre il mondo intero tratteneva il fiato, con gli occhi puntati sull’Europa. 

Poi, invece dell’impatto, solo un grande vento. L’asteroide aveva deviato rotta, all’ultimo momento. Nessuno sapeva come, nessuno sapeva perché. Un’onda gravitazionale imprevista? Un errore nei calcoli? Un miracolo?

All’alba del primo giorno di primavera, il cielo, che per settimane si era fatto sempre più scuro, tornava ora a schiarirsi. Alla finestra Gigi aveva visto le persone uscire di casa, guardare in alto. Urlare e abbracciarsi, controllare freneticamente gli aggiornamenti delle notizie, dirsi alla fine sì, alla fine è vero, siamo vivi. Lui, con la coscienza pulita e leggera come quel vento fresco, aveva sorriso.

E poi il telefono aveva squillato.

«Gigi?»

Era Mario.

«Sì…»

«Allora non moriamo più».

«Pare di no.»

«Bene. Volevo solo dirti che ho sentito Giovanni».

«E…?»

«Che ha sentito Ilaria. Che ha parlato con Lisa. Che ha…» Mario aveva iniziato a snocciolare un elenco interminabile. Almeno la metà delle persone a cui Gigi aveva confessato i suoi peccati, vicini di casa compresi.

«E quindi?» aveva chiesto Gigi, con un filo di voce.

«Quindi sei fregato, amico mio».

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