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“Maledetta” primavera, stagione che ci coglie alla sprovvista con la sua esplosione di vita che invoglia ad aprirsi al mondo. E magari ci porta a notare, come accade nel racconto di Piero Malagoli, che nella fretta quotidiana ognuno è in fuga da qualcosa. Allora forse, in un giorno primaverile, si può provare a rallentare la nostra corsa…
Piero Malagoli, autore di “Nel rimorso che proveremo“
IL CANE E LA LEPRE
Come ogni giorno lo vide in fila alla sua cassa quando ancora non era passato un quarto d’ora dall’apertura. Quella mattinaCristina aveva già preparato la colazione, accompagnato la figlia a scuola, fatto spesa tra le corsie deserte prima dell’ingresso deiclienti, indossato il gilet da lavoro e aperto la cassa alla quale si era seduta con un senso di estenuata rassegnazione e un pizzico di gratitudine. Avrebbe potuto rallentare il ritmo frenetico e concentrarsi solo sul suo lavoro con un sorriso di circostanza stampato in volto che l’avrebbe esentata, fino alla fine del turno, dall’elaborare continui programmi per incastrare tutte le incombenze della giornata.
Per questo la vista del signor Ottavio ogni mattina la urtava procurandole indignazione. Un pensionato iperattivo, già a quell’ora sbarbato e vestito di tutto punto, che, dalle 8 alle 8,15, puntuale come l’affitto, pagava il conto del proprio giornale, mezzo litro di latte e un minestrone preso al banco dei surgelati.
Insofferente alla fila, tra donne oberate da mille altre incombenze e operai che scalpitavano per non tardare al lavoro, il signor Ottavio tentava d’intrufolarsi o di muovere a pietà gli avventori, arrivando perfino a chiedere esplicitamente di lasciarlo passare coi sui pochi articoli. Questo faceva infuriare Cristina, che non comprendeva la fretta di chi poteva disporre del tempo a suo piacimento, e prendeva le parti dei clienti indignati nei battibecchi che inevitabilmente scaturivano dalla sua premura.
«Ma dov’è che deve correre, signor Ottavio?» domandava passando gli articoli sullo scanner.
«Devo scappare» ribatteva cercando di afferrare con dita anchilosate gli spiccioli dal portamonete per pagare in contanti.
Lo guardava uscire nel piazzale con la borsa della spesa quasi vuota e dirigersi verso il semaforo. Un ottantenne ancora arzillo, dignitosamente vestito, che salutava con un cenno il vigile che faceva attraversare la strada ai ragazzini della scuola di fronte e spariva dalla vista e dai suoi pensieri fino al mattino successivo, quando, esasperata, se lo ritrovava davanti con le stesse modalità.
Pensava che quando lei sarebbe stata in pensione (parola che alle sue orecchie suonava fiabesca come unicorno o ippogrifo) si sarebbe goduta la vita con calma e serenità. Che persone come il signor Ottavio quella benedizione non se la meritavano proprio. Ci pensasse lui, ogni mattina all’alba, a rassettare casa, preparare cartelle, stirare vestiti e pensare cosa comprare per cena, se proprio ci teneva ad alzarsi presto. Portasse lui a scuola Martina, la ritirasse a metà pomeriggio, la depositasse a danza ogni lunedì e giovedì, se voleva comprendere il senso delle parole “devo scappare”.
Ogni tanto si vergognava di quei pensieri. In fondo che ne sapeva lei della vita del signor Ottavio? Magari aveva un figlio disabile da accudire, una moglie in una struttura alla quale fare visita ogni giorno e la sua esistenza era molto più caotica di quello che si potesse pensare. Così aveva preso informazioni dai colleghi del supermercato e dalle clienti del quartiere e ciò che era venuto fuori non smentiva la pessima opinione che si era fatta di lui.
Il signor Ottavio era un ex dipendente di banca, senza figli, dalla cui moglie aveva divorziato da oltre trent’anni. Viveva solo e godeva di una pensione più che dignitosa. Questo aveva alzato di una tacca la sua indignazione, immaginando che l’urgenza a cui si appellava riguardasse un cantiere con uno scavo da rimirare e quando si sentiva particolarmente frustrata arrivava persino a sabotarlo, fingendo un riconteggio dell’incasso o la sostituzione del rotolo di carta degli scontrini, lasciandolo a trepidare al nastro trasportatore come seduto sulla graticola.
Cristina, quindi, si stranì non poco notando la sua assenza un mercoledì soleggiato di fine aprile. Con una giornata simile e l’aria primaverile che invitava a mille spensierati progetti, l’assenza di qualunque sfaccendato avrebbe indotto a pensieri di svago e benessere, ma trattandosi del signor Ottavio la cosa la insospettì. Quasi risentendosi con sé stessa, la mattina dopo, si sedette alla cassa con una specie di trepidazione, sbirciando a più riprese tra le corsie che si animavano col passare dei minuti, ma del pensionato… nessuna traccia.
L’arcano si svelò all’ora di pranzo, quando, consumando un tramezzino al bar durante la pausa, Cristina, sfogliando il giornale locale, trovò la foto del signor Ottavio negli annunci mortuari.
Stava a metà della colonna col suo sguardo acquoso, in un vestito inappuntabile con cravatta e penna biro infilata nel taschino. Ne davano l’annuncio la nipote Rosanna, i parenti e gli amici tutti.
Ne rimase turbata. Un senso di cattiveria gratuita le fece considerare che quella fretta lo aveva portato esattamente allo stesso punto che avrebbe raggiunto con tutta la calma del mondo. La riflessione che anche il suo correre quotidiano non faceva altro che avvicinarla ogni giorno di più al medesimo traguardo le comunicò un senso di vicinanza col povero Ottavio. Tanto che notando l’orario delle esequie, previste quel pomeriggio nella chiesetta proprio oltre il parcheggio e l’ufficio postale, decise di farci un salto, giusto per pulirsi la coscienza dai passati rancori.
Alla funzione contò nove partecipanti, ai quali si unì nel secondo banco della navata giusto per rimpinguare un po’ il pubblico. Con lei, l’unica ad avere meno di settant’anni doveva essere la nipote Rosanna, una donnona sui quaranta dai capelli ramati. Per il resto sembrava di trovarsi nella cappelletta del ricovero per anziani.
La messa fu sbrigativa e sul sagrato si fermò a rendere onore al feretro prima che prendesse la strada del camposanto.
Fu lì, in quel pomeriggio soleggiato che si era fatto di un caldoeccessivo per la stagione, che trovò la risposta che nemmeno si era resa conto di stare cercando.
Arrivò da quei vecchi amici ansiosi di andarsene per non contemplare il proprio futuro prossimo su quello stesso piazzale e in particolare da un anziano secco come un ulivo avvizzito che toccando la cassa sussurrò a beneficio degli altri che gli stavano intorno:
«Eh… non c’è nulla da fare. Toccherà a tutti. Non si scappa».
Una frase laconica, trita al pari di quella sulle mezze stagioni e della salute che è più importante di tutto il resto. Ma questo nuovo accenno alla fuga le richiamò alla mente la frase usata dal signor Ottavio che ora le appariva di una lapalissiana chiarezza.
Se fino a un certo punto della vita inseguiamo il tempo, tentando di piegarlo al nostro volere, modellandolo secondo i nostri improrogabili impegni, fagocitandone ogni scampolo come un cane da caccia piomberebbe su una tana di giovani conigli, a una certa età è il tempo a braccarci e noi diventiamo lepri che tentano di fuggirlo riempiendolo di un’eterna e immotivata fretta che simula le incombenze delle quali nessuno ci chiede più di occuparci. Quando il tempo diventa vuoto lo riempiamo di fretta, perché così è sempre stato, e continuare a farlo ci fa sentire vivi.
La riprova stava in quegli anziani che, accennato un segno di croce, se la davano a gambe, rifugiandosi nei prossimi, urgenti impegni della giornata.
Cristina si avvicinò e suo malgrado, toccando il legno lucido e verificato che sua figlia stava per uscire dalla lezione di danza, dovette ammettere:
«Buon viaggio Ottavio. Ora devo scappare».
Le toccò aspettare dieci minuti prima che Martina uscisse trafelata e saltasse in macchina gettando lo zainetto sul sedile posteriore.
«Scusa, scusa, scusa…» esordì «Giulia mi doveva raccontare dell’uscita di ieri sera e mi ha trattenuto».
Lei la baciò sulla fronte sudata, alzandole la frangia.
«Siamo in ritardo?» domandò Martina stupita da quella quieta accoglienza.
«No, non lo siamo».
«Ah… bene» si limitò a commentare.
Uscì dal parcheggio e si immise sulla carreggiata accendendo la musica a basso volume. Per quel giorno non voleva scappare più.
Sapeva bene che non sarebbe durata. Che la mattina seguente avrebbe risentito quell’ansia di non riuscire a tenere il passo, quella fretta di concentrare ancora un altro impegno in un lasso di tempo troppo breve per farcelo entrare, sempre appesa al filo dei minuti, in bilico su un precipizio che continuava a scavare con le sue mani.
Ma per quel giorno basta.
Lo doveva al signor Ottavio, per il quale il tempo non aveva più senso, a Martina, Giulia e alle loro storie di preadolescenti, quando il tempo un senso non ce l’ha ancora. E lo doveva un poco anche a sé stessa, che quel tempo doveva gestire senza sbranarlo, né rifuggirlo.
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